Vincenzo Viviani, ponendo l’accento sull’esquisita memoria di cui fu dotato Galilei, indicava anche l’ampio orizzonte della cultura letteraria dello scienziato: “aveva a mente, tra gli autori latini, gran parte di Virgilio, d’Ovidio, Orazio e Seneca, e tra i toscani quasi tutto il Petrarca, le rime del Berni, e poco meno che tutto il poema di Lodovico Ariosto”(1).
Se i cinque sonetti, composti prima del 1589, rappresentano un giovanile omaggio alla tradizione letteraria acquisita assieme alle prime conoscenze scientifiche, il Capitolo contro ‘l portar la toga, composto quando era già professore a Pisa, manifesta lo spregiudicato rifiuto di un costume accademico di vuoto formalismo, espresso secondo i moduli giocosi della tradizione satirica toscana.
Ci rimangono, di Galileo letterato, anche due Argomenti e tracce d’una commedia che provano il suo vivo interesse anche per il teatro, testimoniato tra l’altro dall’aperta simpatia per il Ruzzante(2). La prima traccia, composta probabilmente a Firenze prima del 1592, presenta analogie con il teatro comico ariostesco e con il modello della commedia latina; la seconda traccia, più tarda, è invece vicina ai modi della commedia dell’arte e reca in misura maggiore l’impronta della realtà, con la scena collocata “fra i mercanti e su le piazze della cara città ospitale”(3), Padova, dove fu composta.
Più che la produzione specificatamente letteraria, sono comunque le pagine di critica letteraria a illuminare il gusto più autentico di Galilei ponendo anche un problema non privo di rilievo sul loro significato nel complesso dell’opera dello scienziato: come “un momento di divagazione da più urgenti e significative preoccupazioni scientifiche” o come un’opera che presenta “legami meno provvisori di quanto abitualmente si sospetta nel discorso mentale galileiano”(4).
Le due Lezioni all’Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante, scritte da Galileo nel 1588 a Firenze, probabilmente per rendere noto il suo nome nella cerchia dei dotti, non offrono giudizi sulla poesia di Dante, ma sono solo una difesa delle posizioni di Antonio Manetti e dell’Accademia fiorentina sulla topografia dell’Inferno contro le tesi opposte di Alessandro Vellutello. Una vivace ed energica presa di posizione sono invece le Considerazioni al Tasso(5), che risalgono probabilmente agli anni 1589-92(6). Le Considerazioni non rappresentano un intervento di Galilei nel dibattito Ariosto-Tasso, che aveva visto la fiorentina Accademia della Crusca ergersi a difesa dell’Ariosto; esse nascono piuttosto dalla istintiva sensibilità di lettore di Galilei, innamorato dell’Ariosto e in un certo senso convinto che il “reato” del Tasso fosse stato quello di aver voluto competere e quasi gareggiare con l’autore del Furioso.
Galilei segue la Gerusalemme canto per canto, notando i punti che più gli consentono di illustrare la “strettezza di vena e povertà di concetti” del Tasso, la cui narrazione, secca e priva di rilievo a suo parere, è paragonata a “una pittura intarsiata”; mentre l’Ariosto, “abbondantissimo di parole, frasi, locuzioni e concetti”, ha un tipo di narrazione paragonabile alla pittura ad olio, “morbida, tonda, con forza e con rilievo” (commento a c. I, ottava I).
La contrapposizione fra pittura ad olio e pittura ad intarsio può essere interpretata come allusiva al contrasto tra due diversi tipi di arte, quella di pittori come Raffaello e Domenichino, rappresentanti di un gusto armoniosamente composto, e quella di pittori come Bronzino o Arcimboldo, in cui si esprime la tipica visione manieristica. Allo stesso modo, anche a proposito di altri paragoni tra poesia e pittura adoperati da Galilei per caratterizzare il dettato poetico del Tasso, vanno colti riferimenti a tecniche in uso presso i pittori manieristi. Secondo la penetrante intuizione di Panofsky, studioso di Galileo critico delle arti(7), occorre rovesciare la tesi tradizionale che considera la critica letteraria di Galileo influenzata dalla sua visione razionalistico-matematica e pensare piuttosto a un’influenza esercitata dal letterato e dall’artista sullo scienziato e sull’astronomo. Al rifiuto di tutto ciò che appare irregolare e contorto, come le opere dei pittori manieristi e la poesia del Tasso, andrebbe collegato perciò anche il rifiuto dell’astronomia in un certo senso manieristica di Keplero, basata sull’ellissi e non più sull’idea di circolarità a cui Galileo continua ad essere legato. E d’altronde la posizione antimanieristica di Galilei non è isolata: essa va, più generalmente, riferita a quel recupero degli ideali rinascimentali contro i travisamenti dell’arte manieristica, che si verificò in Italia e in Europa tra la fine del secolo XVI e la metà del XVII. Il giudizio galileiano sul Tasso, inteso e idealmente collocato in questo momento storico-culturale, acquista dunque un significativo valore di testimonianza critica, superando i limiti di una provinciale reazione del gusto fiorentino di Galilei o del suo personale attaccamento agli ideali classicistici in apparenza violati dalla poesia tassiana.
Nella lettura della Gerusalemme le critiche di Galilei si appuntano innanzitutto sul disegno dei personaggi, che gli appare spesso infelice ed incoerente, come nel caso di Goffredo di Buglione e soprattutto di Tancredi, definito “fagiolaccio scimunito” per il suo languido amore verso Clorinda (commento a c. III, ottava 27). Anche le improprietà di linguaggio sono più volte messe in rilievo (“Il numero delle parole stravolte dal loro significato in questo libro è grandissimo”, commento a c. I, ottava 13) e sono poste in ridicolo certe attitudini stilistiche del Tasso, per esempio l’uso dell’aggettivo grande (“solo avvertisco che si comincia a metter mano alla scatola del grande per condire, come si vedrà nel progresso, molte e molte minestre”, commento a c. II, ottava 60).
Al Tasso Galilei rimproverava i “concettuzzi spezzati e senza connessione” (commento a canto XII, ottava 2), “il peccato di metter mano a molte cose, e poi lasciarle imperfette e come in aria” (commento a c. IV, ottava 20), e soprattutto le “capriole intrecciate” (commento a canto II, ottava 16), cioè quegli artifici che fanno parte dell’intima ispirazione tassiana ma che allo scienziato sembrava rompessero la continuità narrativa necessaria ad un poema. Ciò che soprattutto gli appariva insopportabile era però il compiacimento che il poeta mostrava per questi artifici stilistici: “Parmi pur vedere il pedantino tutto giubilare, intenerirsi d’allegrezza, nel riconoscere i tesori più cari delle sue eleganze” (commento a c. III, ottava 45). Ad animare le osservazioni galileiane(8), non prive di tratti idiomatici (“Ed io lo dico, e l’ho detto mille volte, che voi sete un lavaceci e un ser omo”, commento a c. XIV, ottava 30), era certamente una profonda antipatia verso la personalità umana e morale del Tasso e verso la sua particolare ispirazione poetica: “Si vede veramente che questo poeta aveva la mente distratta in molte torbide immaginazioni; e ora in particolare …. si va aggirando in questi labirinti”(commento a canto XVI, ottava 27). Così osserva Galileo a proposito della descrizione del palazzo di Armida, che gli appare inverosimile e solo poggiata su parole. Ciò che più lo sconcerta è infatti l’idea del labirinto, che egli ritrova alla base del meraviglioso tassiano - privo di coerenza e tanto diverso da quello ariostesco, dove l’elemento fantastico è costantemente rapportabile alle leggi della realtà - come alla base di un sapere scientifico non regolato e ordinato dalla lingua matematica che presiede invece al libro della natura(9) (l’oscuro labirinto di cui discorre nel Saggiatore). In poesia Galileo respinge dunque non la libertà fantastica, ma l’imprecisione che deriva dalle “torbide immaginazioni” e che spiega lo stile mosso e sfuggente del Tasso; sicché il “sogno” che Galileo scienziato auspicava, quello di un dominio e di un ordine applicati alla realtà naturale, le cui leggi profonde spesso si rivelano in contrasto con ciò che ci mostrano i sensi, veniva a profilarsi nelle sue pagine critiche come desiderio di un equilibrio inerente al mondo pur libero della fantasia, secondo quanto il modello ariostesco ben dimostrava.
L’ammirazione per l’Ariosto, che parrà al Gioberti di fondamentale importanza anche per la comprensione di Galileo scienziato, è confermata dalle Postille all’Ariosto, che in forma frammentaria raccolgono le osservazioni del lettore amorevolmente attento alle caratteristiche del Furioso, di cui vengono annotate le sentenze, le comparazioni, le iperboli, ma anche certe inesattezze. Qualche critica, del tutto marginale, nulla toglie tuttavia all’esaltazione del poeta, “divinissimo uomo”.
Anche le Postille al Petrarca(10), più precisamente all’edizione delle Rime e dei Trionfi pubblicata a Basilea nel 1582 a cura di Ludovico Castelvetro, recuperate solo nel 1927, quando l’edizione petrarchesca venne acquistata dalla Biblioteca Centrale di Firenze, costituiscono una serie di note utili a Galileo per illustrare il testo e metterne in rilievo alcune particolarità più evidenti e rivelano la sua sensibilità e il suo gusto di lettore.
Nel considerare la complessa questione dei rapporti fra letteratura e scienza in Galilei(11) occorre tuttavia tener presente non solo l’intreccio che si è cercato di porre in evidenza sul piano della particolare prospettiva critica galileiana, ma soprattutto la singolare configurazione della scrittura dello scienziato pisano, sostenuta da una serrata ragione ma pure dalle invenzioni della fantasia - quella fantasia tanto amata nell’Ariosto – che lo accompagnano nell’”abbattere le cristallizzazioni del sapere tradizionale”(12). La scrittura galileiana è così affidata, più che a squarci di “bello scrivere”, alla sapiente articolazione retorica di un discorso che, per scoprire la vacuità e il dogmatismo della visione tolemaico- aristotelica e per affermare persuasivamente una nuova e rivoluzionaria concezione scientifica, non esita a far ricorso ora a tecniche di sottile parodia nei confronti dell’avversario di cui rovescia posizioni e ragionamenti nella convinzione che occorra lavorare per “rifar i cervelli degli uomini” (Massimi sistemi, VII, 82); ora alle numerose digressioni, che rinviano alla struttura compositiva del Furioso(13) e che animano quella “comedia filosofica” in cui Tommaso Campanella ravvisò l’essenza del Dialogo sopra i due massimi sistemi(14); ora alla naturalezza discorsiva della prosa che non mancherà di suscitare l’attenzione del Leopardi; ora alla ricchezza di un lessico che denota l’attenzione alla realtà del dato concreto e dell’esperienza; ora alla pregnanza delle metafore; ora alla energia polemica dello stile e agli “aculei ironici” - è stato detto(15) - di un enunciato in cui si accorciano le distanze fra scienza e letteratura, in cui l’ingegno e la fantasia sono chiamati a concorrere “in un processo straniante simile a quello vigente in letteratura e consistente nel seminare dubbi anche su verità fino allora consolidate, al fine di indurre a guardare ai fenomeni più familiari con occhio diverso”(16). L’uso dell’italiano anziché del latino, l’adozione di strutture aperte come l’epistola o soprattutto il dialogo a tre voci, anziché il monolitico e uniforme trattato di eredità scolastica, stanno a testimoniare la volontà tutta galileiana di imprimere al dettato della nuova scienza una forma vigorosamente comunicativa(17), che nella varietà e vitalità delle sollecitazioni - frutto di una formazione umanistica ad ampio raggio, testimoniata anche dalla scoperta presenza nelle sue opere di movenze letterarie - ritrovava il segno di una visione non più rigida e dogmaticamente autoritaria della scienza e della realtà.
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