Non c’è nella storia della scienza, forse, altro personaggio su cui si sia versato più inchiostro di Galilei. Merito del suo ingegno o di una storiografia che, a partire dall’Illuminismo, ne ha fatto il campione della tradizione anticlericale della scienza moderna e l’antesignano del metodo scientifico? Il mito di Galileo ha viaggiato nei secoli, rimodellandosi nelle interpretazioni che ne hanno dato non solo gli storici, ma anche poeti, registi e letterati di formazione e credo differenti, ed è entrato nell’immaginario collettivo. Il vecchione che punta il cannocchiale al cielo e aforizza: “E pur si move!” è uno stereotipo abbastanza diffuso, come l’idea che la sua opera abbia rappresentato lo spartiacque tra due culture, quella medievale e quella moderna, che abbia inaugurato un cambiamento rivoluzionario nella scienza e nei suoi metodi e che si sia prefigurata come il successo della libertà di ricerca contro ogni fede e dogmatismo. Certamente, l’immagine di Galileo “vittima dell’Inquisizione” ha condizionato per secoli il confronto pacifico tra la pratica delle scienze sperimentali e l’aspirazione religiosa, in particolare cattolica.
In realtà, le contrapposizioni icastiche scienza-fede e antichità-modernità sono state un po’ smussate dalla storiografia contemporanea, che ha ritrovato nella cultura medievale le radici di quel percorso verso la fisica matematica che Galileo e gli scienziati moderni hanno imboccato, poi, con successo e ha mostrato come le ragioni dei teologi al tempo di Galileo non fossero completamente oscurantiste e come tutta l’impresa scientifica affondi le sue motivazioni nel rapporto religioso che presuppone il Dio della tradizione cristiana, trascendente alla natura e primo creatore della stessa.
Il mito di Galileo perseguitato dai Gesuiti fu avallato da Ludovico Geymonat nella sua ormai classica biografia del 1957. La ricostruzione dello storico marxista suggerì che il Pisano avesse trovato sulla propria strada solo scolastici intransigenti, i quali, pur non ignorando i risultati delle ultime indagini nella scienza del moto e pur avendo avuto notizia dei dati raccolti da astronomi come Tycho Brahe, rifiutarono il confronto con Galileo, spinti dall’unica ambizione di difendere l’ortodossia cattolica e l’immagine del mondo presentata dalla Chiesa. Roberto Bellarmino, gesuita, teologo del Papa e consultore del Sant’Uffizio, fu il più acerrimo avversario di Galileo ed utilizzò le sue conoscenze scientifiche per negare le evidenze della nuova scienza. Studi storici più accurati delle indagini condotte dai gesuiti tra la seconda metà del XVI e la prima del XVII secolo hanno mostrato, già a partire dagli anni Ottanta del Novecento, come, in realtà, le competenze scientifiche di Galileo e dei suoi avversari fossero pressoché alla pari, che il primo fosse stato in qualche caso sostenuto da quelli e che, infine, avesse fatto tesoro dei dati scientifici raggiunti già nel secolo precedente, soprattutto nell’applicazione della matematica allo studio della natura. Quello che è risultato chiaro a qualcuno, come a Paul Feyerabend, è l’incommensurabilità dei due discorsi, quello di Galileo e quello di Orazio Grassi, di Chistopher Scheiner, di Bellarmino e della pletora di nuche imporporate che lo condannò. Contro la tradizione razionalista, che ha fatto di Galileo il proprio campione, Feyerabend ha lanciato le sue provocazioni, sostenendo, da un lato, che annichilire completamente gli sforzi intellettuali di quanti appartengono alla scienza cosiddetta “non vincente” significa impoverire la visione dello sviluppo della scienza stessa, considerata un derivato da mozioni soltanto interne, mentre, dall’altro lato, sostenere che la posizione di Galileo fosse più ragionevole dell’altra è inesatto, poiché, prima di diventare chiare ed evidenti, le teorie sono usate per qualche tempo in maniera incoerente e a volte senza la prova dei fatti. Lo scontro tra opinioni contrarie non si combatte solo con le armi della ragione o dell’aderenza alla realtà, ma con quelle più subdole e poco edificanti dell’opportunismo, della contraffazione, della propaganda, della retorica, e così via.
Pietro Redondi, in una monografia molto letta e molto contestata, ha dato un’immagine altamente viva e dissacrata del Galileo “eretico”, finito nelle grinfie dell’Inquisizione non solo, e non tanto, per la sua fede copernicana, ma anche per aver aderito ai principi dell’atomismo, incompatibili con il dogma principe della religione cattolica, ossia la transustanziazione attraverso il sacramento dell’Eucarestia. Redondi, ricostruendo il quadro in cui si inscenò il processo e la condanna di Galileo, è riuscito a far emergere il punto di vista dei suoi avversari, uomini dotti esperti nelle matematiche e nell’astronomia, di diverse fedi e schieramenti, che in veste ufficiale ed ufficiosa intersecarono le loro voci nella querelle galileiana, ma che, in alcuni casi, solo ora sono venuti alla luce. Pietro Redondi ricorda nel saggio aggiunto all’edizione del 2004 del suo Galileo eretico come la critica rivoltagli da Italo Calvino (“in Galileo eretico è lui Galileo quello che si vede meno”) lo abbia condizionato maggiormente nelle ricerche successive sul Pisano. In effetti, dopo tanta letteratura che ha celebrato Galileo, sollevandolo dalla schiera dei ciechi pensatori del suo tempo, lo slittamento nell’errore opposto, quello di puntare l’obiettivo sul contorno e sfocare l’immagine in primo piano, è molto facile. Una strada possibile è quella di cercare nell’opera di Galileo quegli aspetti che lo legano alle conoscenze filosofico-scientifiche e teologiche del suo tempo. In questo senso si è mosso Redondi, che ha dedicato le ricerche più recenti a cercare di definire il peso che ha avuto sulla riflessione del Pisano l’aderenza al progetto di rinnovamento della dogmatica religiosa, che stava emergendo in seno alla tradizione aristotelico-tomistica. Nello stesso senso deve essere intesa la rilettura di William Shea nel recente Galileo a Roma degli episodi salienti del rapporto che Galileo ebbe con le autorità ecclesiastiche, primo fra tutti l’amico ed estimatore, Maffeo Barberini, che nel 1623 salirà al soglio pontificio col nome di Urbano VIII. La disponibilità a favorirlo e la deferenza che in tutti i sei viaggi nella capitale fu mostrata a Galileo sembra testimoniare una possibile alternativa che la vicenda avrebbe potuto assumere, se lo scienziato fosse stato più accorto a cogliere le opportunità offerte, invece di scavarsi la fossa con le sue mani nel vano tentativo di sfuggire alle accuse.
E’ abbastanza ovvio che, cambiando il punto di vista su Galileo, cambia anche la lettura che si fa del significato e della consistenza della “rivoluzione scientifica”.
Dall’immagine edificante di Koyré, che ha visto nel progressivo cammino di affermazione della razionalità scientifica un processo unitario, pur con qualche rallentamento, come lo scorrere di un fiume nelle anse del suo letto, di inglobamento di costruzioni intellettuali dal potere conoscitivo sempre più ampio, all’ipotesi anti-razionalista, che ha ricusato alla filosofia della natura del Seicento la consapevolezza di fomentare un cambiamento epocale, sottolineando il carattere caotico ed incoerente di molte di quelle esperienze e riflessioni, si è aperto il campo ad ulteriori proposte dell’epistemologia più recente.
Sono passati quasi cinquant’anni dalla pubblicazione della Struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn, in cui la scienza non veniva più descritta come una conquista unitaria del pensiero, ma come un percorso a balzi, in cui ad ogni salto ha corrisposto un cambiamento completo dell’organizzazione delle costruzioni intellettuali, ma anche dei programmi e delle metodologie di ricerca e della struttura dei rapporti tra i ricercatori. Dal punto di vista della sociologia della scienza il cambiamento di prospettiva, cioè di paradigma, si determina attraverso la competizione tra programmi rivali e la vittoria è il frutto della conquista di credibilità che uno dei due, a scapito completo dell’altro, è riuscito a guadagnarsi nella comunità scientifica a volte con strumenti ideologici, piuttosto che con dati sperimentali inoppugnabili o dimostrazioni rigorose. Per Kuhn i paradigmi non soltanto sono incompatibili ed esclusivi, ma contemporaneamente diventano incommensurabili. Le rivoluzioni scientifiche sono momenti di sviluppo non cumulativi, nei quali per l’intuizione dell’uomo di genio un nuovo modo di pensare si sostituisce al vecchio e avvia la costruzione di una nuova struttura del sapere, che si incrementa nel lavoro successivo, nel cosiddetto periodo di “scienza normale”.
Acquisito il concetto di rivoluzione nella scienza, gli storici hanno provato a descrivere in diverso modo la riorganizzazione dei contenuti della riflessione scientifica e delle sue strutture concettuali e procedurali all’alba dell’era moderna. I caratteri propri della scienza moderna la individuano, secondo Rupert Hall, in maniera propria rispetto a qualsiasi insieme di risultati teorici, che prima del XVII secolo era stato elaborato nel campo d’indagine delle osservazioni naturali. Gli elementi di conoscenza del passato, contaminati da spunti esoterici ed irrazionali, devono essere presi tutt’al più come produzioni intermedie, ma non in linea di continuità con quel risultato straordinario che è l’avvento della scienza moderna in Occidente. Anche Alistair C. Crombie, pur avendo trovato nella cultura europea a partire dal XIII secolo le radici del pensiero moderno, ha rimarcato che è dal Rinascimento che la ricerca ha subito quell’accelerata capace di generare un cambiamento epocale nella produzione positiva del sapere: in altri termini il riversamento di contenuti e metodi dalle costruzioni teoriche medievali non smentisce il fatto che la scienza moderna possa essere definita come un’elaborazione indipendente, nuova e rivoluzionaria.
Il lavoro di Crombie, di Randall Jr. e di altri è servito a capire che alcuni risultati sia teorici che sperimentali, raggiunti in quelle che Kuhn ha chiamato scienze classiche – astronomia, idrostatica, meccanica, matematica ed armonia – non furono totalmente dispersi dalla rifondazione delle conoscenze, che si verificò a partire dal XVII secolo, come dimostra, ad esempio il caso dell’elaborazione della teoria del moto locale, che molto attinse dalle ricerche del XIV secolo sull’impetus, le quali, tra l’altro, furono le prime a staccarsi da una fenomenologia qualitativa e a richiedere una formulazione matematica.
Secondo quanto scrisse Koyré intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso, il punto di svolta tra la scienza antica e quella moderna non fu segnato dall’emergere di nuove esperienze o di metodi completamente differenti, almeno nelle prime fasi della rivoluzione scientifica, ma da una diversa maniera di cogliere la realtà e i suoi fenomeni, che si trasformò in un uso diverso di vecchi strumenti concettuali e materiali. Questa trasformazione fu da lui descritta come il passaggio dal mondo del pressappoco a quello della precisione. Questo passaggio non si identificò solo nel superamento di una logica qualitativa di descrizione della realtà, che faceva perno solo su connotati transitori e approssimativi degli oggetti, ma consistette anche in una nuova aspettativa legata all’oggettività della scienza, traducibile d’ora in poi in aderenza a criteri di comunicabilità dei risultati e di specificità epistemologica della conoscenza scientifica. In sintonia con questa visione, altri storici, come R. Hall e Paolo Rossi, hanno sottolineato l’emergenza nella scienza rivoluzionaria del Seicento dei nuovi valori della democraticità, collaborazione, progressività e sistematicità del sapere scientifico. L’obiezione più immediata che si può rivolgere a questa linea di riflessione storiografica è quella di aver identificato tutta la scienza con la fisica (o meglio la meccanica e l’astronomia) e di aver etichettato come metodo scientifico quello che emerse nello sviluppo di questo particolare nucleo di ricerca. Se, invece, si considera il definirsi di altre branche della scienza, più sperimentali, come l’ottica, la dinamica dei fluidi, ecc., si riconosce il loro attardarsi ancora per parecchio nel limbo di indagini non sistematiche e solo nel XIX secolo l’approdo alla quantificazione. L’individuazione di questo doppio binario, su cui hanno viaggiato per alcuni secoli discipline scientifiche per molti versi dirimpettaie rispetto a quelle su cui si è stabilita la svolta concettuale e metodologica nel Seicento, sembra essenziale per correggere la prospettiva che la storiografia razionalista ha proposto. Non è certamente il solo squarcio che può essere fatto in quella costruzione. Da più parti, infatti, viene proposta un’immagine “complessa” della rivoluzione scientifica.
Paradigmatica è in questo senso la riflessione presente nell’opera dello storico statunitense I. Bernard Cohen, Revolution in science, del 1985. Il suo intento era quello di leggere le vicende storiche del cammino della scienza, chiedendosi il modo in cui quei fatti fossero stati percepiti da chi li aveva vissuti. Così, sfatato il mito che indicava già nel Seicento l’idea di un cambiamento rivoluzionario dei metodi e dei contenuti della scienza, dal momento che lo stesso termine “rivoluzione” fino alla fine del secolo indicava un moto ciclico e non una trasformazione irreversibile (in questa accezione cominciò ad essere usato solo in riferimento ai rivolgimenti politici), Cohen interpretava i vari passaggi emblematici della scienza come processi che iniziano dall’intuizione del singolo e vanno, ma non in tutti i casi, fino al riconoscimento da parte della comunità scientifica. In questa prospettiva il culmine del movimento di affermazione della matematizzazione dell’indagine della natura in epoca moderna veniva spostato alla pubblicazione dei Principia di Newton, nell’opera del quale si esplicitò definitivamente quell’insieme complesso di teorizzazione, matematizzazione ed esperienza, che caratterizzò la scienza successiva in modo essenziale. Per quanto abbia puntato l’accento sul carattere compiuto ed irreversibile della svolta che interessò la scienza sperimentale a partire dall’opera di Newton, Cohen sottolineava come in questo passaggio – così come in molti altri – potevano essere svelati elementi di discontinuità, ma anche di continuità rispetto al passato. Il problema era che alcuni aspetti di una teoria scientifica acquistano significato molto tempo dopo essere stati comunicati ed il modo di vederli dipende dall’esito che essi hanno avuto e dalla discussione che si è creata intorno ad essi.
Cosa si può dire a questo punto di Galileo?
Galileo fu sicuramente un personaggio rivoluzionario, perché a differenza di Copernico, che fu letto principalmente dai matematici, ai quali l’eliocentrismo poteva essere propinato senza troppi conflitti in senso ipotetico, e da Keplero, che non fu molto compreso dai suoi contemporanei, il Pisano scrisse opere che ebbero larga diffusione e la condanna della Chiesa aggiunse alla sua persona il fascino della vittima sacrificale.
I contributi di Galileo come scienziato si riscontrano principalmente in due campi: quello dell’astronomia osservativa e quello della teoria del moto.
Galileo attraverso il cannocchiale riuscì a raccogliere tutta una serie di nuovi dati sui corpi celesti ed i loro moti. Descrisse la superficie lunare come corrugata al pari di quella della terra, scoprì che Venere ha le fasi come la luna, che il Sole ha delle macchie, che Giove ha satelliti come la terra, e così via. In sintesi, offrì agli uomini del suo tempo un’immagine più realistica del cielo! Questi dati si accordavano con il sistema copernicano, mentre non potevano essere giustificati in quello tolemaico. Galileo sostenne di avere delle prove sperimentali per dimostrare la centralità del sole, dando alimento in maniera repentina alla discussione sulla validità dell’eliocentrismo come teoria scientifica e non solo come costruzione euristica ad esclusivo uso dei matematici. Nella difesa del significato empirico del copernicanesimo Galileo aveva contro di lui non solo il senso comune (dalla prospettiva terrestre i corpi celesti appaiono come astri luminosi molto diversi da come appare questo pianeta), ma soprattutto il principio d’autorità. Il sistema tolemaico poteva contare su una storia millenaria: da Eudosso di Cnido, che per primo nel IV secolo a.C. aveva immaginato un sistema di ventisei sfere concentriche per spiegare i movimenti osservabili degli astri, attraverso Callippo, che a quelle aveva aggiunto altre sette, attraverso Aristotele, che, oltre le ventidue sfere retrograde, aveva introdotto anche l’etere, attraverso Ipparco di Nicea, che aveva complicato ancora più il sistema, adottando epicicli ed eccentrici, per giustificare fenomeni come il moto retrogrado del sole e dei pianeti, si era arrivati con Claudio Tolomeo, nel II secolo d.C., alla concertazione di tutto il sistema, organico e coerente con i dati osservabili. In questa sistemazione il geocentrismo fu accolto per 1.500 anni. La spiegazione dell’universo fisico dei greci entrò a far parte anche del sistema di valori della cultura cattolica. Mettere in dubbio la struttura del mondo fisico consacrata dalla Scolastica medievale significava anche opporsi alla lettura letterale delle Sacre Scritture.
Al tempo di Galileo i teologi, che entrarono nell’agone contro la sovversione del principio di incorruttibilità dei cieli ed il movimento della terra, non furono ottusi al punto da non comprendere anche il livello di discorso, che andava costruendo il fisico pisano. Galileo era stato già favorito dal gesuita tedesco Christopher Clavius, matematico del Collegio Romano, all’inizio della sua carriera e sembra, secondo William Wallace, che ne avesse accolto il programma scientifico, applicando la matematica allo studio della natura e cercando in una fisica matematica gli strumenti concettuali per trovare spiegazioni causali ai fenomeni del mondo terrestre e di quello celeste. Anche dopo la prima ammonizione a Galileo nel 1616 molti gesuiti continuarono a sostenerlo. Probabilmente l’esito della vicenda sarebbe stato diverso, se il fisico avesse trovato un argomento scientificamente valido per sostenere la sua opinione: il movimento delle maree, che nel Dialogo è presentato come prova conclusiva a favore della teoria eliocentrica, in realtà, era molto debole e gli astronomi del suo tempo se ne rendevano conto. Altri fattori, intrinseci ed estrinseci, s’intersecarono in modi anche imprevisti a decidere la rapida condanna di Galileo. C’è anche da considerare che, nonostante la gravità delle accuse, il fisico pisano fu sempre trattato con il massimo riguardo dovuti alla sua età e all’elevatezza di spirito e che la sentenza di carcerazione, aggiunta all’abiura, gli fu commutata in permanenza coatta in luoghi, in cui, comunque, egli poté continuare ad intrattenere relazioni e a sviluppare i suoi studi.
L’altro campo in cui Galileo offrì i maggiori contributi fu quello delle indagini sul moto.
Questa scienza antichissima fu da lui arricchita di nuove leggi e principi. Innanzitutto il principio dell’isocronismo del pendolo, secondo cui, lasciato oscillare liberamente, un peso attaccato ad un punto fisso percorre l’arco di oscillazione nello stesso tempo, purché l’ampiezza angolare sia piccola. In altri termini, il moto di un pendolo è armonico con un periodo di oscillazione indipendente sia dalla massa oscillante che dall’ampiezza delle oscillazioni. Tutte le oscillazioni hanno la stessa durata. Galileo dimostrò che i corpi in caduta libera hanno una velocità indipendente dal loro peso e un’accelerazione uniformemente proporzionale al quadrato del tempo impiegato a percorrere le stesse distanze. L’intuizione geniale di Galileo fu quella di misurare le accelerazioni in una situazione sperimentale, in cui poteva rallentare i tempi di caduta. Per fare questo si avvalse di piani inclinati, su cui fece rotolare delle palle levigate di peso diverso, ed ottenne delle misurazioni, che dimostravano la regolarità dell’accelerazione a prescindere dall’inclinazione del piano e dal peso del mobile, e la dipendenza di questa dalla radice quadrata dell’altezza di partenza. Sviluppando tali risultati, Galileo comprese che un grave percorre nella sua caduta spazi proporzionali ai quadrati dei tempi, che è l’abbozzo del secondo principio d’inerzia, formulato da Newton. Galileo studiò anche il problema della traiettoria dei proietti e dimostrò che essa è parabolica, risultato di grande interesse per l’artiglieria. Nello studio della traiettoria parabolica dei proietti Galileo sembrò giungere ad una prima definizione del moto inerziale.
Tutti questi enunciati fanno di lui un grande innovatore, non solo per il valore intrinseco delle relazioni individuate, ma anche perché l’approccio da lui adottato allo studio dei problemi scientifici era agli antipodi rispetto a quello della tradizione aristotelica. Secondo l’immagine, anch’essa diventata uno stereotipo, che di lui aveva dato Ernst Cassirer all’inizio del Novecento, il grande salto in avanti rispetto alla Scolastica compiuto da Galileo era consistito nel rinunciare ad un’indagine limitata alla ricerca delle “cause” e nel proporre lo studio delle relazioni tra fenomeni, il “come” avvengono i fatti nel mondo fisico. Questa tesi è stata rivista. Come ha fatto notare Paolo Galluzzi, Galileo lasciò perdere le cause non per ragioni polemiche, o non solo, ma perché non riusciva a superare alcune difficoltà, che quelle ponevano nella descrizione dei fenomeni. Da questo punto di vista il superamento della ricerca delle cause fu vissuta da Galileo come una rinuncia un po’ forzata e probabilmente non del tutto consapevole. Inoltre, Galileo non riuscì ad arrivare al traguardo che la via imboccata avrebbe potuto fargli raggiungere: nell’analisi del moto si fermò solo al livello della cinematica, ossia lasciò cadere qualsiasi considerazione sull’azione delle forze che provocano il movimento (dinamica).
Rispetto ai filosofi medievali che avevano studiato il problema del moto - anche utilizzando il calcolo - su un livello di astrazione tale, per cui il movimento era una categoria generale applicabile a qualsiasi mutamento dalla “potenza” all’“atto”, persino a quelli dell’animo, Galileo limitò le sue osservazioni ai movimenti locali e verificò con esperimenti le leggi fisiche dedotte. L’idea di una scienza basata sulla matematica non era nuova al Seicento, ma risultò vincente l’approccio di considerare la rappresentazione matematica del reale corrispondente all’esistente. L’incontro tra la legge fisica e la realtà si realizzava con l’esperimento e l’osservazione critica: “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni” erano per Galileo alla base della filosofia naturale.
Sul senso e sulla probanza dei famosi esperimenti di Galileo si è scritto molto. E’ certo che alcuni di questi non furono realizzati, come quello di far cadere pubblicamente oggetti di peso diverso dalla Torre di Pisa (l’esperimento, che ha avuto tanta presa sull’immaginario popolare, probabilmente - come riportano i taccuini - corrisponde ad una prova reale che Galileo fece, in sordina, lasciando cadere dei pesi da una torre non nominata). Comunque, il Pisano immaginò anche come adeguare il risultato di un esperimento ideale a quello che sarebbe stato possibile verificare empiricamente: la caduta di corpi da una torre non è nella realtà indipendente dal peso degli stessi, perché il loro moto uniformemente accelerato viene rallentato in funzione della capacità di vincere la resistenza dell’aria, più difficile per un corpo leggero, più facile per uno pesante. Oltre a progettare esperimenti per verificare un’ipotesi, Galileo condusse anche indagini esplorative su taluni fenomeni, come ha fatto notare Stillman Drake nei suoi classici lavori degli anni Settanta, sulla base delle quali giunse, in un modo un po’ diverso da quello descritto nei Discorsi, a definire le relazioni matematiche per il moto dei corpi.
L’uso degli esperimenti nell’indagine naturale, anche di quelli mentali, non era certamente nuovo all’epoca di Galileo; lo scienziato, però, ne fece una parte essenziale dell’indagine scientifica, accanto all’analisi matematica.
La riabilitazione di Galileo da parte della Chiesa ufficiale ha seguito un lungo percorso. Per primo, Papa Alessandro VII, nel 1664, ritirò il Decreto del 1616 di messa all’Indice dell’opera di Copernico e di ammonimento a Galileo a non professare pubblicamente opinioni a favore del moto della Terra. Benedetto XIV nel 1757 tolse dall’Indice i libri che parlavano del moto della terra. La liberalizzazione dell’insegnamento della teoria eliocentrica fu sancito da un decreto della Sacra Congregazione dell’Inquisizione, approvato da Papa Pio VII nel 1822, anche se in molte Università si parlava già in termini copernicani dei moti celesti, proponendo questa teoria come ipotetica.
Nel 1981, su sollecitazione di Papa Giovanni Paolo II, venne costituita una Commissione Pontificia per riesaminare il caso Galileo. I lavori di questa Commissione sono durati oltre dieci anni e hanno portato a fare luce, finalmente da parte delle autorità cattoliche, sulla realtà della vicenda storica di Galileo. Non ne è scaturita un’ammissione di colpevolezza, come i mass-media hanno voluto sbandierare, ma la considerazione che nella congiuntura storico-culturale, in cui i giudici del Santo Uffizio hanno dovuto esprimere la loro valutazione, essi non avevano la capacità di comprendere che questa verità scientifica non avrebbe potuto intaccare la tradizione cattolica e che il proibirla non fosse un dovere per la salvaguardia dell’integrità della comunità cristiana. La Chiesa non è per principio contraria alla scienza e nel caso di Galileo ha commesso un errore in buona fede. Giovanni Paolo II, a commento dell’esito dei lavori della Commissione, ha voluto sottolineare l’importanza della filosofia, che porta a rendersi conto del senso globale della realtà, mentre i saperi specialistici della scienza rischiano di creare frantumazioni e non-sensi, che minano l’integrità dell’essere e della sua coscienza. Il Papa ha invitato a rendersi conto che, se dovesse ripresentarsi un conflitto tra le ragioni della scienza e quelle della fede simile a quello che si verificò ai tempi di Galileo, le parti in gioco dovrebbero rendersi conto dei reciproci limiti ed evitare di sopraffarsi, perché, se è vero che devono essere evitate le ingerenze filosofico-teologiche sulle questioni scientifiche, deve essere anche scongiurato il caso opposto, cioè che la scienza possa avere l’ultima parola anche sulle questioni che interessano il significato globale della vita e dell’essere. L’invito del Papa, al di là del riconoscimento dell’indipendenza dei rispettivi campi, è quello di preoccuparsi che l’individuo abbia in ogni caso di mira l’intelligibilità e l’ordine del creato, che rinvia ad un Pensiero trascendente ad ogni cosa.
Arrivati a questo punto si può cercare di tirare una conclusione che, come tutte le conclusioni storiografiche, non può essere considerata compiutamente definitiva. Ma su un punto è possibile individuare una comune convergenza, sia pure nel rispetto della pluralità dei punti di vista e delle prospettive storiche: il riconoscimento della grande complessità, con luci ed ombre, mostrata non solo nella presa di coscienza determinativa del “caso Galilei”, ma anche, più in generale, della qualificazione di ciò che – paradossalmente – per tradizione ormai consolidata, va sotto il nome di “rivoluzione scientifica moderna”.
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