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"Il ruolo dei Domenicani nel caso Galileo"
Alcune chiavi di lettura
di Padre Gerardo Cioffari O.P.
Centro Studi Nicolaiani
 

Il caso Galileo è uno dei più interessanti nella storia dei rapporti fra la Chiesa e la cultura laica. Esso ha una storia reale, fra l’altro molto ben documentata e non da oggi, ed una storia a tesi, che non potrà mai morire. Basti ricordare come molti usano oggi il caso Galileo per ricordare l’opposizione della chiesa alla ricerca sulle staminali. Naturalmente, il tentativo da parte cattolica di sottolineare gli errori scientifici di Galileo è un’argomentazione goffa che non coglie il centro del problema. La chiesa non aveva e non ha il diritto di far soffrire nessuno per le sue idee. Questo ha affermato Giovanni Paolo II quando il 10 novembre 1979 deplorò che Galileo ebbe molto a soffrire da parte di uomini e organismi della Chiesa, ordinando nel 1984 che si pubblicassero i documenti vaticani del processo. Il mea culpa della Chiesa, però, a mio avviso dovrebbe spingere gli storici a non fare ideologia della storia, ma a riportare ciò che è veramente accaduto, tanto più che, come si è detto, il caso Galileo è documentato come pochissimi in tutto il corso della storia.
Il dibattito su questa vicenda ha coinvolto e coinvolge ancora oggi persone che spesso non hanno dimestichezza con la storia e con una certa disinvoltura passano da un piano all’altro della problematica. E’ opportuna dunque qui una premessa che dica su quale piano ci si intende muovere. La questione, infatti, potrebbe essere affrontata da varie prospettive:

  1. Teologico biblica. Sulla conciliabilità fra l’osservazione scientifica e i principi teologici. Questo tema interessava principalmente i domenicani, il cui ordine tradizionalmente forniva il più gran numero di inquisitori.
  2. Scientifica. Sulle scoperte di Galileo, fino a dove erano valide e in che cosa erano errate. Il tema interessava soprattutto i gesuiti, i quali avevano la direzione del Collegio Romano, istituzione pontificia a carattere scientifico.
  3. Libertà di pensiero. Sul diritto di pubblicare la propria tesi senza dover rischiare conseguenze personali. L’argomento è di interesse universale, ed anche la Chiesa cattolica, dopo secoli in cui ha giustificato l’inquisizione, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, ne condivide i princìpi.
  4. Verità storica. Se la condanna sia stata conseguenza di princìpi dogmatici oppure di situazioni contingenti e personali. La tematica è difficile soprattutto per gli studiosi laici, i quali tendono a considerare la Chiesa come istituzione e come un blocco omogeneo, senza accorgersi che è composta di uomini con le loro passioni e idee diverse.

Questo mio intervento non intende affrontare la vicenda da tutte le angolazioni, ma esclusivamente dall’ottica dei frati predicatori, più noti come domenicani. Da quanto detto sopra, quindi, il tema del ruolo dei domenicani nel caso Galileo concerne soprattutto due questioni.

  1. Punto di vista dei domenicani nel problema del rapporto fra fede e scienza.
  2. Quale peso hanno avuto come inquisitori nella condanna di Galileo.

Non prendo in considerazione gli altri due punti, perché il primo (quello scientifico) era più di pertinenza dei gesuiti, e i domenicani non entrarono nella controversia né sulle comete né sulle maree; mentre il secondo (libertà di pensiero), dopo il Concilio Vaticano II e dopo il mea culpa di Giovanni Paolo II, trova oggi una soluzione unanime. Dato che non sempre gli studiosi sembrano conoscere lo spirito e la struttura dell’Ordine, mi permetto qualche osservazione previa che può aiutare a comprendere anche il caso Galileo. Le chiavi per meglio comprendere l’atteggiamento dei domenicani sono le seguenti:

  1. L’ordine domenicano nasce nel primo ventennio del XIII secolo con lo scopo di difendere la chiesa con gli strumenti culturali e la predicazione (onde “Frati Predicatori”). Per questo, quando (12 anni dopo la morte di S. Domenico) il papa Gregorio IX istituisce l’inquisizione, è da quest’Ordine che prende il maggior numero di inquisitori.

  2. L’ordine domenicano ha una struttura democratica (i superiori sono scelti dalla base). Il maestro generale e i priori provinciali attuano le decisioni delle assemblee generali (chiamate “capitoli”). Le osservanze regolari sono mitigate dall’istituto della “dispensa”, e l’obbedienza prevede un certo tempo di “dialogo”.

  3. Il peso decisionale degli inquisitori medioevali fu spesso rilevante, anche se non sempre. Nel caso del processo del 1475 contro gli ebrei, l’inquisitore del papa Sisto IV, il domenicano Battista de’ Giudici, strenuo difensore degli Ebrei ingiustamente accusati, nulla poté contro il vescovo di Trento.

  4. Con la bolla di Paolo III Licet ab initio del 1542 viene istituita la Congregazione del Sant’Uffizio. E’ composta da sei cardinali. Solo il Commissario è per tradizione un domenicano. Come domenicano è sempre il maestro del Sacro Palazzo. Entrambi però devono rendere conto ai cardinali. Il potere dell’inquisizione domenicana diviene praticamente solo consultivo.

  5. I domenicani, sin dal primo istante e nonostante i pressanti richiami dei maestri generali, furono fortemente ostili ai gesuiti. Si può quindi ben immaginare l’enorme soddisfazione quando Galileo mise alla berlina i gesuiti Christoph Schneider e Orazio Grassi.

Alcuni storici del caso Galileo, prendendo spunto dall’atteggiamento degli inquisitori domenicani, deducono che “quella” era la mentalità dei domenicani. Valgano come esempi il Cristofolini, alla voce Caccini del Dizionario Biografico degli Italiani e il Guerrini nel suo Galileo e la polemica anticopernicana a Firenze. Il primo afferma che i domenicani avevano propensioni antigalileiane e retrive in materia di scienza. Bene, mi limito a ricordare che Bruno e Campanella erano domenicani. Che quest’ultimo godeva delle simpatie dei frati di S. Domenico Maggiore (come dimostra l’invidiabile curriculum di P. Serafino da Nocera, l’amico che faceva uscire le opere del Campanella dal carcere).
Che la Ratio Studiorum di Salamanca già nel 1561 prevedeva lezioni sui sistemi di Tolomeo, Geber e Copernico, mentre quella del 1594 prescriveva: En el segundo cuadrienio léase a Nicolao Copernico y las tablas Pluternicas en la forma dada.
Il fatto che la filosofia aristotelico-tomista fosse prevalente non impediva affatto le aperture alle nuove teorie. Il domenicano Diego de Deza, che lo Llorente paragona a Torquemada come inquisitore, fu il principale sostenitore di Cristoforo Colombo. Questi, il 21 dicembre 1504, consigliando al figlio di rivolgersi a questo padre domenicano, dichiarava: E’ lui che è stato la causa che le loro Altezze possedessero le Indie e che io sia rimasto in Castiglia mentre mi stavo già preparando ad andare all’estero. E’ vero che il regolamento degli studi (la Ratio studiorum) prevedeva come corso fondamentale la filosofia aristotelico-tomista, ma questa era ripensata con notevole elasticità, come dimostra il pensiero di Francisco de Vitoria, padre del diritto internazionale (cui è dedicata una grande sala nel Palazzo dell’Onu di Ginevra). Ed esempi di questo tipo se ne potrebbero addurre in gran quantità.
Ad un domenicano si deve una delle prime edizioni critiche della Bibbia, quella di Sante Pagnini, che tante lodi ebbe addirittura da Michele Serveto e dai protestanti. Domenicani erano i letterati Francesco Colonna e Matteo Bandello, e domenicano era quell’Ignazio Danti, autore delle grandiose mappe della galleria geografica del Vaticano, al quale il Galileo sperava di succedere sulla cattedra di matematica a Bologna.
Naturalmente non mancavano i domenicani con propensioni retrive (per dirla col Cristofolini e col Guerrini), ma è eccessivo ed ingiusto generalizzare.
Venendo a Galileo, quando il grande pisano nel 1610 pubblicò il Nuncius Sidereus, nessuno festeggiò l’avvenimento con un entusiasmo pari a quello di fra Tommaso Campanella, il quale dalle carceri napoletane il 13 gennaio 1611 scriveva al grande scienziato una lettera in cui gli comunicava di aver divorato in due ore iocundissime la lettura del Nuncius Sidereus. E riferendosi alle sue previsioni di “nuove scienze celesti”, invitava il Galileo, sull’esempio di Amerigo Vespucci che aveva dato il suo nome al continente scoperto, di dare il suo nome al nuovo cielo che egli veniva scoprendo.
Il Galileo sapeva però che Campanella scriveva dal carcere e che undici anni prima il suo confratello Giordano Bruno era stato messo al rogo per aver affermato l’eternità e l’infinità dei mondi. Anzi, come si sa, nelle sue opere non cita mai il filosofo nolano, le cui opere pur dimostra di conoscere.
Se però Campanella aveva mostrato entusiasmo, alquanto critico si mostrò fra Niccolò Lorini, predicatore della corte granducale di Firenze, che in una predica affermò l’inconciliabilità della teoria copernicana con la Sacra Scrittura. I Fiorentini la interpretarono come un attacco al Galilei, onde il Lorini gli scrisse (5 novembre 1612) ribadendo che quello era il suo pensiero, ma che a me poco monta, che ho altri fini. Il Galileo si lasciò andare a qualche battuta irrisoria, definendo tra l’altro il domenicano goffo dicitore.
E qui entra in ballo il brutto carattere di Galileo, come già era stato di Giordano Bruno, quello di prendere in giro e deridere gli avversari. Non è qui il caso di soffermarsi troppo su questo aspetto, tuttavia è bene non dimenticare che la vicenda di Giordano Bruno e soprattutto di Galileo avrebbe avuto un esito completamente diverso se il linguaggio fosse stato più sereno e rispettoso.
L’insistenza sull’autonomia della ricerca rispetto alla Sacra Scrittura, esposta nella famosa lettera all’amico benedettino Castelli, suscitò la reazione del domenicano fra Tommaso Caccini, che in S. Maria Novella tenne due lezioni sul Libro di Giosué sostenendo l’inconciliabilità del sistema copernicano con la Bibbia. Quando la suddetta lettera del Galileo al Castelli pervenne nelle mani del padre Niccolò Lorini, questi, alla luce delle lezioni del Caccini, il 7 febbraio 1614 sentì suo dovere informarne il segretario della Congregazione del Santo Uffizio. Lo stesso Caccini, come si sa, predicando in S. Maria Novella nella IV domenica d’Avvento del 1614 alluse al pisano commentando il celebre passo: Viri Galilaei, quid hic statis aspicientes in coelum, ove l’allusione e il dileggio sarebbe stato più che evidente.
La presa di posizione del Caccini provocò un certo rumore fra i confratelli domenicani, che restavano divisi tra fautori e critici di Galileo. Solo che mentre i primi erano prudenti, i secondi, cioè i critici, contattarono gli ambienti romani affinché gli scritti di Galileo fossero proibiti. Dal canto suo il Lorini, in veste di predicatore della corte granducale, nel febbraio 1615 ritenne necessario riferire la controversia fiorentina intorno a Galileo al Sant’Uffizio di Roma, allegando alla denuncia la lettera di Galilei a Benedetto Castelli, nella quale si discuteva delle verità scientifiche e della loro non contraddittorietà con la Sacra Scrittura. Il suo era un “atto dovuto”, come si dice in gergo giuridico ma non è da escludere che fosse venuto a conoscenza della qualifica di goffo dicitore con cui il Galileo l’aveva definito.
In questa prima fase dunque i domenicani hanno la colpa di aver dato il via alle accuse. Oltre al Lorini e al Caccini, compaiono anche Ferdinando Ximenes (uno dei testimoni), Agostino Galamini (ex maestro generale) e Michelangelo Seghizzi (commissario del sant’Uffizio). La situazione veniva così descritta da Piero Guicciardini, ambasciatore fiorentino: Sento che vien qua il Galilei... . Io non so se sia mutato di dottrina o d’umore; so bene che alcuni frati di S. Domenico, che han gran parte nel Santo Offizio, et altri, gli hanno mal animo addosso; et questo non è paese da venire a disputare della luna, né da volere, nel secolo che corre, sostenere né portarsi dottrine nuove. Ma, anche se è vero che alcuni frati di S. Domenico ce l’avevano col Galileo, non c’è dubbio che questa prima fase, iniziata dai domenicani, fu conclusa dal celebre gesuita, il cardinale Roberto Bellarmino (protagonista anche della fase conclusiva del processo a Giordano Bruno) nel febbraio del 1616 con l’ingiunzione di presentare il sistema copernicano come un’ipotesi e non come una tesi. Il primo commento di un domenicano all’iniziativa dei confratelli fu quello del predicatore generale P. Maraffi che scrisse al Galileo: Di fronte allo scandalo provo infinito disgusto, soprattutto poiché l’autore è un frate del mio Ordine ... Conoscevo quest’uomo. Sapevo che Caccini, nella sua follia ed ignoranza poteva essere manipolato, ma non avrei mai potuto credere che potesse accadere una simile sciocchezza.
Vedendo fallita la loro iniziativa, sia il Lorini che il Caccini chiesero scusa personalmente al Galileo. Ma nessuno, né fra i contemporanei né fra gli studiosi odierni, ha creduto alla loro sincerità.
Si era in questa fase interlocutoria, con un’aria ancora leggermente favorevole al Galilei, quando entrò in scena il Campanella. Tra i consultori, infatti, c’era anche il cardinale Bonifacio Gaetani, il quale fece pervenire una richiesta al Campanella di esprimersi sulla questione. Nella sua Apologia pro Galilaeo il domenicano calabrese sottolineò che il cristianesimo non può temere le scienze: La sola religione cristiana, appunto perché non teme di essere scoperta come falsa, raccomanda ai suoi seguaci lo studio di tutte le scienze... D’altronde, in Galileo non si può scoprire falsità, poiché egli muove da osservazioni sensate fatte nel gran libro del mondo, e non da una soggettiva opinione, e non parla come se sostenesse cose di fede, sicché sorpreso in errore dia luogo a derisione della Bibbia e sua.
Il Campanella si espresse dunque a difesa della libertà di ricerca del Galileo, anche se il grande astronomo si guardò bene dall’utilizzarla, ben sapendo che il Campanella stesso era una vittima del sistema inquisitoriale. Né lo fece successivamente, quando acerrimo nemico del Campanella fu quel Niccolò Riccardi, che invece era suo amico. Probabilmente, quella del filosofo calabrese era la posizione di tanti altri frati, non però di quelli che avevano voce in capitolo.
Il Galilei dunque, dopo aver incassato l’avvertimento del Bellarmino, si congedò senza che contro di lui fosse preso alcun provvedimento formale, né v’erano segni di qualche pericolo imminente. Una tale calma apparente gli fece abbassare la guardia, il che si poté vedere nell’affare dell’apparizione delle tre comete nell’agosto del 1618. Per l’occasione il padre gesuita Orazio Grassi tenne nel Collegio romano un discorso in latino in cui criticava la recente scoperta astronomica. Pur senza aver visto le comete, il Galileo affidò la risposta (al Grassi) al discepolo Mario Guiducci che all’Accademia fiorentina pronunciava il Discorso sulle comete. La cosa non piacque affatto ai gesuiti, come al Galileo fece sapere l’amico Ciampoli: I Gesuiti se ne tengono molto offesi e si preparano alle risposte. Poco dopo appariva infatti, sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi, la risposta molto aspra del Grassi nella sua Libra astronomica ac philosophica (1619). Illudendosi che ormai la lotta si fosse spostata sul campo scientifico, il Galileo rispose nel 1623 con l’opera polemico-satirica Saggiatore.
Al dire degli scienziati, nella questione specifica delle comete Galileo è tutt’altro che scientificamente corretto. Ma egli allargò l’orizzonte della questione fino a toccare altre tematiche scientifiche, sempre con una insistente derisione del Sarsi. Ma i gesuiti non erano ingenui. Ciò che li irritava era il fatto che essi sapevano che il Galileo insisteva nella derisione e nel dileggio del Sarsi, pur sapendo che si trattava di un padre gesuita. Così, dopo un inizio in cui dovette vedersela con alcuni domenicani, la vicenda si evolveva mettendo di fronte il Galileo al potente ordine dei gesuiti. Come fanno notare gli storici, era tutta la Compagnia di Gesù ora a sentirsi offesa.
Naturalmente, con quell’attacco ai gesuiti da parte del Galileo, i domenicani da avversari si trasformarono in sostenitori dello scienziato. P. Niccolò Riccardi (meglio noto come il P. Mostro), futuro maestro del Sacro Palazzo, pubblicamente lodava la sottile e soda speculazione dell’autore, dichiarandosi felice di essere nato in quel tempo, e commentando il titolo rilevava: non più colla stadera e alla grossa, ma con saggiuoli sì delicati si bilancia l’oro della verità. Una curiosità: ad esaltare il Galileo erano ora due domenicani acerrimi nemici fra di loro: Tommaso Campanella e Niccolò Riccardi. E quest’ultimo aveva detto espressamente: questa non è materia di fede, né conviene in modo alcuno impegnarci le Scritture.
Segni che, tuttavia, invitavano alla prudenza non mancavano. Ma Galilei non seppe essere prudente, anche perché nel 1623 era stato eletto papa Urbano VIII da sempre suo stimatore. Per alcuni anni Galileo visse e lavorò tranquillamente. Le cose sembravano andare a gonfie vele: Campanella liberato dal carcere nel 1929 diveniva addirittura consigliere del papa, e Niccolò Riccardi diveniva maestro del Sacro Palazzo. Sembra che sia stata proprio la promozione del Riccardi a spingere Galilei a prendere posizione netta a favore del sistema copernicano. Lo disse espressamente il Castelli al domenicano, affermando che Galilei si era deciso dopo che sua P. Rev.ma era stata deputata nell’officio di Maestro del Sacro Palazzo, perché era sicuro che non sarebbero le cose sue passate e giudicate da ignoranti. Al che il Riccardi aveva risposto di poter contare su di lui, il che fu dal Castelli riportato al Galileo in una lettera del 9 febbraio 1630.
In realtà il Padre Mostro (il Riccardi appunto) non la pensava come il Galileo. Ce lo rivelano le parole che lo scienziato scrisse in una lettera al principe Cesi: Che la notizia sia vera o falsa, il fatto è che padre Mostro non concorda né con Tolomeo né con Copernico, ma si compiace di immaginare che gli angeli muovano le sfere celesti senza fatica né intoppi, ovunque esse vadano, e questo gli basta. La visione del mondo del padre Mostro si richiamava direttamente alla teologia scolastica, risolvendo nell’azione degli angeli tutte le possibili contraddizioni di carattere scientifico. Uomo di larghe vedute, dunque, ma anche amante del quieto vivere e non certo disposto a sacrificarsi per le sue idee. Per cui quando vedeva che uno più in alto di lui aveva convinzioni o antipatie ben precise, non ci pensava due volte ad abbandonare l’amico al suo destino. E’ vero che era stato dalla parte di Galileo anche se pressato dalle critiche di tanti frati, ma aveva potuto farlo conoscendo le simpatie del papa per lo scienziato.
Qualcosa di analogo si stava verificando riguardo ai suoi rapporti col Campanella. Nel 1629 il Mostro aveva approvato l’Ateismo trionfato del confratello e filosofo calabrese. Ma non bastò, perché anche il maestro generale Niccolò Ridolfi volle esaminare l’opera. Il fatto che ai primi del 1630, quando ritirò la copia data al maestro generale, cominciasse a nascondere la sua approvazione è spiegabile soltanto con l’avversione del maestro generale per il Campanella e la sua concezione della vita domenicana.
Quando il Galilei giunse a Roma nel 1630 per fare stampare i Dialoghi, il Riccardi lo accolse amichevolmente e, prima di dare l’imprimatur, affidò la lettura del libro al confratello Raffaello Visconti. Il 16 giugno del 1630 il Visconti comunicava al Galilei che il libro era piaciuto al Riccardi e che si trattava di fare solo qualche insignificante ritocco. Ed anche se il Riccardi volle rileggere ancora lo scritto, alla fine concesse il permesso che fosse stampato a Firenze, ove il Galilei era tornato. Le uniche condizioni erano che togliesse dal titolo la menzione delle maree, che evitasse di discutere di Sacra Scrittura e che desse alla teoria copernicana il carattere di ipotesi, per non violare il decreto del 1616. Avrebbe voluto avere fra le mani una copia con le suddette correzioni, ma poi si accontentò che Galilei gli inviasse solo l’inizio e le conclusioni. Il Riccardi aveva anche pensato di trasmettere copia ad un inquisitore fiorentino più severo, ma poi decise di affidare il tutto ad un domenicano amico del Galilei, il provinciale fiorentino fra Giacinto Stefani. Quest’ultimo, fidandosi delle parole del Galilei, che insisteva sulla sua fedeltà alla Chiesa come ai santi Padri e dottori, dette il consenso alla stampa.
Nel corso del 1630 e del 1631 Urbano VIII non intervenne direttamente nella questione di Galileo. Aveva ben altre preoccupazioni. I suoi nemici diffondevano ad arte voci su una sua imminente disgrazia a causa della sfavorevole congiunzione astrale che si sarebbe manifestata in una eclisse. Estremamente superstizioso, chiamò presso di sé fra Tommaso Campanella, che godeva di grande fama di astrologo, chiedendogli riti propiziatori che neutralizzassero questi segni negativi.
Era questa l’atmosfera nelle stanze del Vaticano, quando il libro, intitolato Dialogo sopra i due massimi Sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, entrò in tipografia nel 1631, uscendone nel 1632. Il testo conteneva nel proemio le raccomandazioni del Riccardi, tuttavia l’eliocentrismo era sostenuto nettamente da Salviati (= Galileo) contro il geocentrismo di Simplicio (= Sempliciotto). Le maree erano state tolte dal titolo ma rientravano di peso nel testo, considerandole il Galilei come prova fondamentale dell’eliocentrismo. Ma, nonostante il grande successo anche in vari ambienti ecclesiastici, l’apparizione del libro fu l’inizio delle sventure del Galileo. Ci si potrebbe chiedere: col favore del papa e del maestro del Sacro Palazzo come fu possibile questa svolta degli eventi?
Basandosi soltanto sui documenti vaticani, Sergio Pagano ha continuato recentemente a dare importanza agli inquisitori domenicani. La lettera del commissario del Sant’Uffizio Vincenzo Maculano al card. Francesco Barberini del 22 aprile 1633 mostra il domenicano impietosito della situazione di Galileo, pur ritenendo che la sua posizione dottrinale fosse contraria alla dottrina della Chiesa. E’ comunque del tutto evidente che il domenicano si muoveva tutt’altro che autonomamente, e che attendeva istruzioni sul come comportarsi. In ogni caso, che tutto l’interrogatorio, con i suoi numerosi documenti del 1933, non avessero alcuna importanza è provato sia dal fatto che il papa non tenne conto neppure dell’intercessione del cardinale suo nipote sia e soprattutto da queste poche righe del documento 47 (16 giugno 1633): Galilei de Galilei de quo supra proposita causa, etc. Sanctissimus decrevit ipsum interrogandum esse super intentione, etiam comminata ei tortura, et si sustinuerit, praevia abiuratione de vehementi in plena Congregatione Sancti Officii condemnandum ad carcerem arbitrio Sacrae Congregationis, iniuncto ei ne de caetero scripto, vel verbo tractet amplius quovismodo de mobilitate terrae nec de stabilitate solis, et e contra, sub poena relapsus. Librum vero ab eo conscriptum cui titulus est Dialogo di Galileo Galilei Linceo, prohibendum fore.
Con questa perentoria presa di posizione del papa quale poteva essere il margine decisionale dell’inquisitore Vincenzo Maculano. La risposta più sensata è: nessun margine decisionale. Il destino di Galileo era già segnato, quali che fossero state le sue risposte all’inquisitore domenicano.
Come si sa, i motivi principali che spinsero il papa a trasformare l’amicizia col Galilei in feroce avversione, sono:

  1. Sospetto di aver partecipato al vaticinio sulla morte imminente del papa.

  2. Il disegno sul frontespizio del dialogo, allusivo al suo sfrenato nepotismo.

  3. L’aver messo “l’argomento di Urbano VIII” sull’onnipotenza divina al di sopra dei dati scientifici in bocca a Simplicio (ingenuo, scemotto).

Ci si potrebbe chiedere se il papa si fosse accorto da solo di queste cose, o qualcuno gliele aveva fatto notare. L’autore dell’edizione dei documenti vaticani (Sergio Pagano) non sospetta nessuno, e pensa che la condanna sia stata la conseguenza degli interrogatori degli inquisitori domenicani. In realtà, abbiamo una testimonianza del protagonista della vicenda, lo scienziato gesuita Christoph Scheiner. Questi, scrivendo il 24 luglio del 1634 all’amico Diodati, riportava le parole del matematico gesuita Christoph Gremberger: Se il Galileo si avesse saputo mantenere l’affetto dei padri di questo Collegio, viverebbe glorioso al mondo e non sarebbe stato nulla delle sue disgrazie, e arebbe potuto scrivere ad arbitrio suo d’ogni materia, dico anco di moti di terra..., sicché vede che non è questa né quella opinione che mi ha fatto e fa la guerra, ma l’essere in disgrazia dei Giesuiti.
Il mercoledì mattina 22 giugno “come reo ed in abito di penitenza” fu condotto in un’aula del convento domenicano di S. Maria sopra Minerva, ove ascoltò la condanna all’esilio (che dopo alcuni mesi a Siena fu la villa di Arcetri, presso Firenze). L’abiura e la sentenza fu fatta leggere nelle istituzioni accademiche italiane. Secondo il Rénan, L’abiura di Galileo è – nella storia del pensiero – un martirio non meno solenne e commovente del martirio di Giordano Bruno. Questo, più propriamente eroico, ci esalta; quello, più propriamente umano, ci commuove fino alle lacrime. Quanto ai Domenicani, il Riccardi sembra che fosse deposto dall’ufficio di Maestro del Sacro Palazzo, mentre l’inquisitore domenicano di Firenze se la cavava con una ammonizione. L’atteggiamento irremovibile del papa contro Galileo, che durò sino alla morte dello scienziato, spinse i domenicani ad eseguire pedissequamente la sentenza, facendo ovunque ritirare le copie del Dialogo sopra i due massimi sistemi.
Il ruolo dei Domenicani nel processo contro Galileo fu dunque abbastanza complesso, ma al contempo estremamente indicativo dei grandi mutamenti sopravvenuti. Da una parte col Caccini e il Lorini i frati aprivano le ostilità (1614), dall’altra i superiori del Caccini chiedevano scusa allo scienziato per l’affronto fattogli da un loro confratello. Da una parte i domenicani erano in maggioranza suoi amici, a partire dal Campanella fino al nemico di questi Niccolò Riccardi, rilasciandogli l’imprimatur per pubblicare la sua opera, dall’altra furono essi nel loro convento della Minerva a leggergli la condanna.
In realtà non si può parlare di un atteggiamento dell’Ordine nei suoi confronti, anche se è ovvio che negli studi domenicani (ove predominava la filosofia aristotelica) non si potevano certo nutrire simpatie verso un avversario dell’aristotelismo. Si può solo dire che, se si eccettuano i domenicani della commissione esaminatrice nella prima fase (24 febbraio 1616) e che ne censurarono il pensiero, la maggioranza dei frati coinvolti di cui ci sono giunti i nomi era a lui favorevole.
Da ciò deriva un’altra considerazione. Sulla base dell’evolversi della vicenda si può dire che, se tutto fosse dipeso dagli inquisitori domenicani (tra l’altro in quell’epoca timidi ed ossequiosi), molto probabilmente il Galileo sarebbe stato assolto, essendo di tale avviso persino il maestro del Sacro Palazzo. Invece, come si è visto, la ripresa del processo fu decisa personalmente da Urbano VIII, un papa sicuramente di larghe vedute, ma superstizioso e terribilmente permaloso. Questo aspetto del suo carattere, che fu la salvezza del Campanella, fu anche la causa della rovina del Galileo. Già tanto amico del Galilei, Urbano VIII non avrebbe rimesso in moto il processo inquisitoriale se non avesse visto (o non gli avessero fatto vedere) nel Simplicio dei Dialoghi una caricatura della sua persona.
In ogni caso il processo a Galilei segna la fine dell’inquisizione domenicana. Non in senso tecnico, ovviamente, dato che l’inquisizione continua regolarmente sino all’Ottocento. Ma, nella sostanza. Gli inquisitori domenicani nel processo a Galileo appaiono come consultori, come strumenti nelle mani dei cardinali e del papa, senza alcun peso decisionale. Del resto, anche quando avevano più potere, non erano riusciti a salvare neppure i confratelli Girolamo Savonarola, Bartolomeo Carranza, Giordano Bruno o Campanella. Quando qualcuno si permetteva di alzare la voce, come il maestro generale Niccolò Ridolfi, veniva immediatamente deposto. Una restrictio libertatis Ordinis, come la definisce lo storico Angelo Walz, che ha nuociuto all’Ordine in quanto tale, ma che, per quanto riguarda la crisi dell’Inquisizione è tutt’altro che da rimpiangere.
Solo recentemente i domenicani hanno iniziato una riflessione storico critica, libera da qualsiasi ingiustificabile spirito apologetico. Vale però la pena ricordare che tra i primi a chiedere la revisione del processo a Galileo fu, durante il Concilio Vaticano II, il padre domenicano Louis Dominique Dubarle. Purtroppo, il papa Giovanni Paolo II non ha avuto la forza di Urbano VIII. Mentre quest’ultimo (contro tutti) riuscì nel 1633 a far condannare Galileo, l’ordine di Giovanni Paolo II è stato vanificato dalla commissione pontificia che, ritenendo poco decoroso per la Chiesa individuare nella superstizione del papa la causa degli errori nel processo a Galileo, ha preferito scaricare la colpa sui giudici e gli inquisitori che lo interrogarono.

 
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